Bari, il trionfo del gioco


“Eravamo partiti con l’obiettivo primario di riportare la gente al San Nicola. Far tornare l’entusiasmo in una città delusa da tante amare stagioni. Con il passare delle giornate, ci siamo resi conto che potevamo puntare in alto il mirino delle ambizioni. Ed ora ci godiamo la festa. Abbiamo meritato questa promozione, più di tutte le altre squadre. Con il gioco”.
campionato di testa — Antonio Conte è più che mai impettito, orgoglioso, dopo aver conquistato il suo primo alloro da tecnico. Del resto, a giusta ragione, i tifosi del Bari lo ritengono il principale artefice di questa indimenticabile annata. Dai tempi di Eugenio Fascetti e di Antonio Cassano, otto anni fa, la città di San Nicola non assaporava il nettare dei grandi del calcio. Un’impresa riuscita grazie alla marcia trionfale di Barreto e soci, capaci di strapazzare la concorrenza, restando ininterrottamente in testa alla classifica dal 28 febbraio. Risultati a gogò, 10 vittorie esterne, una striscia positiva lunga 16 turni (interrotta dal Parma al San Nicola). Il segreto? La forza di un gruppo di lavoro, che ha organizzato il tutto nei minimi particolari. Conte e i suoi fidati collaboratori, su tutti il preparatore atletico GianPiero Ventrone, non hanno lasciato alcunché al caso.
Raccogliendo frutti copiosi da un modulo tattico assai offensivo (a tutti gli effetti un 4–2–4), che ha esaltato le doti realizzative di Vitor Barreto (20 gol), ma che non ha mai trascurato la fase difensiva (miglior difesa della B, con 28 reti al passivo). “E’ stata un’impresa straordinaria – confida il 39enne tecnico -. Non so se stiamo vivendo un sogno o se siamo su “Scherzi a parte”.
MARCATO BIS — "Vero è che si è rivelato importantissimo il mercato bis. Quando ci siamo accorti di poter inseguire il traguardo più ambizioso, abbiamo ingaggiato i vari Guberti, Kutuzov e Lanzafame. E da quel momento non ci siamo più fermati”. Il momento decisivo? “Ce ne sono stati tanti – risponde Conte -. Anche se la vittoria di Modena contro il Sassuolo (3 – 1, ndr.), per il modo perentorio in cui l’abbiamo ottenuta, ci ha convinto di aver intrapreso la strada giusta”. A far girare la giostra a dovere, le ambizioni mai sopite della società guidata da Vincenzo Matarrese, al timone del Bari dal 1983, nonchè la competenza di un navigato stratega di mercato, Giorgio Perinetti. Una sola nuvola aleggia nel cielo radioso del Bari: il serio rischio che, dopo la grande impresa realizzata con i suoi uomini, Antonio Conte saluti presto la compagnia.
CONTE E I CORTEGGIATORI — Le lusinghe ed i corteggiamenti (Juventus, Atalanta o Lazio) non gli mancano. Nei prossimi giorni toccherà al presidente Matarrese il compito, non agevole, di convincerlo a debuttare in serie A sulla panchina biancorossa. Facile intuire l’alternativa: senza lo spavaldo tecnico salentino, il Bari dovrebbe ricominciare da zero. Sia pur sui verdissimi prati della serie A.

Futuri campioni


Non c'è ancora un portiere e non c'è neppure un libero, nella nazionale esordienti. In compenso ci sono sei centravanti e, più in generale, il ruolo dell'attaccante è coperto in ogni zona del campo. E' la stagione dei ragazzi che s'affacciano alla serie A, la 2008-2009, quella in cui finalmente diversi allenatori italiani - Ranieri, Mazzarri, Del Neri - sulla scia di Mourinho hanno preso coraggio e lanciato in campo i diciottenni cresciuti a casa. Vivaddio. Undici ragazzi in serie A, fin qui, e un paio hanno pure segnato.

La nazionale dei ragazzini esordienti, dicevamo, manca di un portiere, ma Vincenzo Fiorillo è a un soffio dal battesimo. Due volte in panchina con la Sampdoria, una terza volta in Coppa Uefa. Buffon lo ha benedetto come il suo erede e in questo finale di stagione senza più obiettivi di campionato, Coppa Italia a parte, l'allenatore Mazzarri potrebbe mostrarlo allo stadio Ferraris. Più difficile, sull'altro versante genovese, l'esordio di Andrea Signorini figlio del compianto Gianluca, come il padre centrale di difesa potente e sagace. Anche Signorini junior è andato due volte in panchina in prima squadra, ma la volata del Genoa per la Champions League impedirà a Gasperini esperimenti, che pure sarebbero nelle sue corde.

Di Davide Santon, adulto di 18 anni, si sa tutto. Lo schieriamo esterno basso a destra, come ogni tanto fa il suo mentore, José Mourinho, che nell'Inter lo ha usato nelle occasioni più complesse, sempre ripagato: contro il Milan, in casa e fuori con il Manchester United, contro Roma e Fiorentina. La Roma di suo ha fatto giocare a sinistra il terzino Alessandro Crescenzi, otto minuti a Marassi con la Sampdoria. E' titolare nella nazionale Under 19, ha un fisico che si nota e sa giocare con entrambi i piedi, cosa che aiuta.

Nel Milan dei talentuosi brontosauri esordì in serie A, era il 2006, il difensore Matteo Darmian. Non aveva 18 anni. Quest'anno è leader e capitano della Primavera e sta tornando ai palcoscenici di vertice. Ne ha giocate tre con la prima squadra, settanta minuti in tutto: Udinese, Lazio e con il Torino si è preso il lusso di sostituire Paolo Maldini. Claudio Ranieri, poi, ha avuto l'ambizione di far esordire nella Juventus tre ventenni. Lorenzo Ariaudo, anche lui terzino, anche lui prevalentemente mancino, è alla Juve dall'età di nove anni. Ha giocato, e bene, tutta la partita all'Olimpico con la Lazio , poi mezz'ora nel derby e maluccio come il resto della squadra il 2-2 in casa della Reggina. Ha fatto apparizioni nella fase iniziale della Champions League e in Coppa Italia, nel frattempo ha vinto il Torneo di Viareggio. E' nel giro della nazionale Under 21 e, a prescindere dal futuro di Ranieri, lui è già il futuro della Juventus.

Passando al reparto di centrocampo, da segnalare due casi. Ha giocato nella prima fase Champions della Juve, Luca Castiglia, regista che aveva saggiato la serie A l'anno scorso. E nel Milan, che domenica scorsa ha vinto facile a Catania, ha provato due minuti di serie A l'ultimo prodotto brasiliano: Felipe Mattioni, centrocampista di 20 anni, acquistato a gennaio dal Gremio e per volontà di Galliani da valorizzare.

Poi c'è la lunga lista degli attaccanti, razza italiana che non si estingue. Ancora Juventus. Il centravanti Ciro Immobile, napoletano largo un armadio: contro il Bologna ha sostituito, solo per farlo rifiatare, Alessandro Del Piero. In Europa e in Coppa Italia Ranieri ha schierato, poi, l'attaccante di fascia Simone Esposito.

Prima punta di vaglia, e lui ha lasciato il segno con due gol, è Guido Marilungo, appena maggiorenne, già cinque partite in campionato e il debutto dal primo minuto - con il Cagliari a Marassi, 3-3 - bagnato dai due gol di testa. Non è il suo colpo preferito, ma gli assist di Cassano aiutano una crescita a diventar completa. Marilungo è stato il miglior giocatore dell'ultimo Torneo di Viareggio e, dice il ds Marotta, dirigente con lo sguardo lungo, "è un ragazzo intelligente, capace tatticamente, ha tutto per fare una grande carriera".

Nel Cagliari ha esordito un attaccante potente come Daniele Ragatzu. Prima il Torino, poi la Fiorentina, partita in cui ha segnato lenendo la sconfitta (2-1). Domenica scorsa, nel naufragio di Palermo, un altro scampolo di gara. Ragatzu è del settembre 1991, è cresciuto in un quartiere complicato di Cagliari ed è caratterialmente infiammabile. Il Chelsea lo ha insidiato, ma intorno a lui il presidente Cellino vuole crescere una storia alla Zola.

La crisi economica sta aiutando i giovani: i presidenti chiedono più coraggio ai loro allenatori nel lanciarli. Nell'Atalanta, erede di una lunga tradizione giovanile, ha già giocato due gare il centravanti della Primavera, Simone Zaza. Nella Lazio, sabato sera a San Siro, ha fatto il suo esordio Libor Kozak, 20 anni. Lotito lo ha acquistato per 1,2 milioni dopo un provino andato male al Portsmouth. Attaccante della Repubblica Ceca, nella Primavera biancoceleste ha fatto sette gol. E anche il disastrato Torino di Urbano Cairo, in passato il migliore settore giovanile del calcio italiano, ogni tanto torna a mostrare pezzi preziosi. Denis D'Onofrio , classe 1989, è nato a Gruglisco ed è un centravanti cresciuto in casa. Nelle ultime quattro stagioni, dagli Allievi nazionali in poi, ha segnato 70 reti. Sei le ha fatte all'ultimo Viareggio e sei tutte insieme nel campionato Primavera contro il Grosseto. Il suo esordio domenica scorsa, a Firenze, con sconfitta. Al 27' della ripresa D'Onofrio ha sostituito Dzemaili e ha avuto la sfortuna di farsi fischiare un fuorigioco sul gol del pareggio di Franceschini. Succede, non bisogna demoralizzarsi.

Valzer di attaccanti


Sono le squadre più grandi d' Europa. Quelle più quotate e più titolate. Eppure quasi tutte queste il prossimo anno potrebbero cambiare il punto cardine del gioco, il centravanti. O comunque un attaccante. Basti che se ne sposti uno. Il resto sarà una catena che si muoverà di conseguenza. Con tanti, tantissimi soldi in ballo.

LA PARTENZA DI TREZEGUET - Cominciamo con le fresche dichiarazioni di Antonio Caliendo, procuratore di David Trezeguet, rilasciate a Radio Kiss Kiss stamani: "Sono abituato a parlare solo dopo il mercato, ma facendo delle ipotesi c'è da dire che non ci sono grandi possibilità che Trezeguet resti alla Juve, visti i rapporti che si sono instaurati in quest' ultimo periodo. Per concludere direi che ne dobbiamo riparlare tra due settimane e vedere un po', anche d' accordo con la società, che interessi e intenzioni ci siano da entrambe le parti". E per lui si parla già di un possibile ritorno in Francia, al Marsiglia, dove ritroverebbe Didier Deschamps come allenatore. Ma non c'è solo il Marsiglia. Perché anche il Barcellona nel recente passato ha spesso chiesto notizie dell'attaccante francese.

ANCHE ETO'O SUL MERCATO -
Tra l'altro proprio il Barcellona rientra nella lista di squadre che potrebbero cambiare centravanti. Samuel Eto' o, che a dir la verità in questo periodo è spesso sul mercato, ma poi alla fine è sempre rimasto in Catalogna, potrebbe cambiare aria. Il Manchester City lo vuole, anche se il presidente del Barcellona Joan Laporta ha dichiarato: "Una trattativa col City? Non ho mai discusso del trasferimento di Eto'o con loro. Non è una questione di soldi. Il Barcellona non è un club che vende, noi i giocatori li compriamo".

IL CASO IBRAHIMOVIC - Poi c'è sempre l' Italia, con Milan ed Inter alla porta. Già, l'Inter. E la grana Ibrahimovic. Per lo svedese si è parlato proprio del Barcellona, magari con uno scambio, più conguaglio, con lo stesso Eto' o. Ma su Ibra c'è pure il Real Madrid, sempre più pressante. Comunque sia c'è da pagare uno stipendio da 12 milioni netti l' anno. Ma intanto Moratti pensa con grande insistenza a Milito.
Il Chelsea stasera si gioca l' accesso alla finale di Champions League con il Barcellona, ma c'è ancora il dilemma Didier Drogba in agguato. Eduardo Garcia, uno dei candidati alla presidenza del Real Madrid, ha dichiarato di avere già raggiunto un accordo per portare l' attaccante in Spagna. Difficile al momento capire quanto possa reale la sua affermazione oppure rientrare nelle classiche sparate da campagna elettorale. Fatto sta che Drogba è uno che piace a molti.

PARTE ADEBAYOR -
All' Arsenal c'è Adebayor. Ci sono buone probabilità che il giocatore lasci la formazione allenata da Wenger. Anche per lui il Milan ha sempre nutrito un grande interesse, ma le richieste più pressanti al momento sono arrivate da Spagna e Inghilterra. Il Manchester United, primo finalista di Champions League, dovrà sostituire Carlos Tevez, che se ne andrà quasi sicuramente. A proposito, per l'argentino si è parlato spesso dell' Inter. Ferguson, senza Tevez, dovrà così trovare un altro attaccante. E un nome potrebbe essere quello di Karim Benzema, punta del Lione, il cui valore si aggira intorno ai 25 milioni. Ma Benzema potrebbe interessare pure il Real Madrid, che in questa fase di ristrutturazione è pronto a buttarsi su ogni obiettivo possibile. Il Bayern Monaco non ha problemi con il centravanti, visto che Luca Toni rimarrà quasi sicuramente. Però c'è Ribery, che potrebbe andare via. Il Manchester United guarda gli sviluppi della situazione con attenzione, ma l'operazione è legata alla trattativa che potrebbe portare Cristiano Ronaldo al Real. Insomma, tutti alla ricerca di un attaccante. Solo il Liverpool, al momento, sembra escluso.

E mentre c'è grande fermento sulle panchine italiane, pure all' estero sta già iniziando a muoversi qualcosa. Marco Van Basten ha dato le dimissioni dall' Ajax, mentre Felix Magath ha annunciato che a fine campionato lascerà il Wolfsburg, attualmente al comando della Bundesliga, per andare allo Schalke 04.

Manchester, razza padrona


La razza padrona del calcio moderno ha il volto shakespeariano di Sir Alex Ferguson, l'uomo dalle gote arrossate degne di Falstaff, in lotta perenne con la pensione e con una moglie incombente che già tre anni fa tentò invano di scollarlo dall'adorata panchina. La razza padrona ha le fattezze creole di un giovane portoghese di Madeira, che vola sopra le disgrazie degli avversari pur essendo stato lui ad averle provocate. Ha la fisionomia di un ex moccioso della periferia di Liverpool, con le orecchie a sventola e due occhi azzurri piccoli e infossati che lo fanno sembrare una specie di husky, uno che fra pochi mesi diventerà padre dopo aver saputo crescere come uomo e come calciatore sino a diventare campione su entrambi i fronti: centravanti o terzino per lui non fa più così tanta differenza.

Il Manchester che parte per Roma non è una squadra nata ieri. E' la somma di tante primavere, di ragazzini cresciuti sino a diventare un modello per chi li seguiva. La catena inizia con Pallister, Bruce, Sharpe, Cantona, Kanchelsky, Hughes, Schmeichel, Neville, si abbelisce con Beckham, Giggs e Butt, balla con i Calypso Boys (Cole e Yorke), si fa concreta e cinica con Sheringham e Solskjaer e lentamente comincia a vincere tutto, con l'aiuto di O'Shea, Wes Brown, Park, nomi di seconda, terza fascia, sino a prendersi due finali di Champions consecutive, la seconda dopo aver già vinto la prima. Anche le terze fasce sono fondamentali.

Se Ferguson è l'uomo che non sa smettere, se è lui l'instabile capitano che non ha ancora trovato un motivo accettabile per abbandonare la nave, i suoi figli, allevati alla stessa cultura, gli restituiscono quanto appreso sui banchi di scuola di Carrington (il campo d'allenamento) e dell'Old Trafford. La gomma americana che Ferguson si infila in bocca all'inizio di ogni partita è il punto di raccordo, il senso più profondo e allungato di questa emozione fanciullesca e infinita. La password. Ha ragione Desailly. Dalle colonne del "Newsweek" l'ex-Milan e ex-Chelsea scrive: "E' un falso storico pensare che i giocatori moderni pensano soltanto ai soldi. Saranno una decina in tutto. Gli altri vivono per giocare". Vero. Ogni volta che il Manchester segna un gol il suo tecnico salta per aria uscendo dal cappotto, muovendo scompostamente, quasi senza ritmo, le braccia verso l'alto, agitanto i pugni come se fosse sempre la prima volta, come se ogni volta fosse una sorpresa: proprio come un bambino. Quest'uomo, questo fanciullino di quasi 70 anni, comanda il calcio dal 1992. In 17 anni ha vinto come cinque allenatori di grido messi insieme.

Un capolavoro di esperimenti e valorizzazioni, acquisti strabilianti (Berbatov) o minimi (Park) e cessioni roboanti o inevitabili, con qualche errore, per esempio Veron, e qualche atroce sacrificio, per esempio Van Nistelrooy. Col suo scozzese smozzicato ha trasformato Tevez in un filosofo e Macheda in una specie di golden boy, ha conquistato la sua terza finale di Champions, la seconda consecutiva. Ferguson non è un allenatore, né un manager nel senso più classico del termine. E' piuttosto un inventore. Ha creato dal nulla una generazione di calciatori: la razza padrona, appunto. Che è per sua natura senza età, senza un colore della pelle prevalente, non ci sono né alti né bassi, né giovani né vecchi. Il filo rosso, rosso diavolo, che unisce e compatta un gruppo come questo, e che quindi rende possibile esperienze come quella del Manchester United, è la condivisione di un sentire.

Trenta uomini accomunati da un senso del dovere che si fonde con la creatività individuale, nel nome del lavoro e della qualità. Una percezione collettiva del calcio. Berbatov che si mette al servizio di Welbeck. Neville che spinge perché al suo posto giochi Rafael. Scholes che sostiene Anderson e Giggs che va a prendere Macheda all'aeroporto. Questo si chiama squadra. Una squadra che possiamo allargare ai frequentatori dello stadio, 76 mila posti, sempre pieno, e ai padroni del club, la famiglia Glazer, con a capo il quasi ottantenne Malcolm Glazer, milionario americano che lotta, si indebita, sbaglia. E che all'inizio venne quasi rigettato dalla città.

Anche così si fa quadrato: non caricando di responsabilità un gruppo benché il deficit societario (797 mln di euro) oltrepassi ormai le entrate (550 mln), pur essendo queste le più alte mai raggiunte da un club. Tutto questo sbandare dei conti non impedisce tuttavia di sognare un ampliamento dello stadio (è già qualcosa di più concreto di un sogno): da 77 mila a 95 posti. Nella crisi le grandi imprese investono. O se non altro non restano ferme.

Con queste fantastiche premesse sportive, ma senza dimenticare i suoi fardelli debitori, il Manchester può riconfermarsi campione d'Europa, cosa mai accaduta da 15 anni a questa parte, ossia da quando l'Uefa ha cancellato la Coppa dei Campioni in favore della più democratica Champions League, che è anche la coppa delle seconde, delle terze e in certi casi delle quarte.
Il Manchester va a Roma perché forte, scaltro, geniale, compatto, vitale, pieno di piedi, polmoni, coraggio, entusiasmo. Fra poche ore conoscerà il nome dell'avversaria. Fosse il Chelsea, sarebbe la prima volta che una finale si ripete a distanza di un anno, con l'unica variante della città che la ospita (Mosca, Roma). Fosse il Barça, sarebbe certamente la finale più giusta per i valori espressi nell'arco della stagione. Il Manchester può dunque rivincere la Coppa. L'ultimo a trionfare per due volte consecutive (era ancora il tempo dei tabelloni ristretti) fu il Milan di Sacchi ('89/'90). Ci riuscirono anche il Nottingham Forest, ora tristemente declassato a squadretta, il Liverpool di Keegan, l'Inter di Angelo Moratti e il Benfica di Eusebio. Il Bayern e l'Ajax fecero addirittura tripletta. Il Real dominò le prime cinque edizioni. Altri tempi, altri soldi. Ma non necessariamente un calcio migliore.
Fonte La Repubblica

Roma, Spalletti lascia

Busta numero uno: di­missioni. Busta numero due: eso­nero. Busta numero tre: rescissio­ne consensuale del contratto. Non c’è nessun premio in palio, ma queste, oggi, sono le risposte pos­sibili a un’eventuale domanda sul futuro di Luciano Spalletti sulla panchina della Roma, come da contratto peraltro, visto che c’è un accordo che lega l’allenatore toscano al club giallorossi sino al trenta giugno del 2011. Perché, comunque la si rigiri, alla luce dell’incredibile accelerazione dei fatti delle ultime settimane, oggi co­me oggi appare francamente im­possibile che il ma­trimonio tra l’alle­natore che ha rico­struito la Roma dal­le macerie e la so­cietà possa conti­nuare.

SOROS - L’ultimo atto del botta e ri­sposta tra tecnico e società, è andato in scena domenica po­meriggio, nuova sa­la stampa del­l’Olimpico, subito dopo la conclusione della partita con Chievo, cominciata e finita tra i fischi di una tifoseria al limi­te della sopportazione. «Tutti tira­no in ballo i soldi... lo ha fatto an­che la dottoressa Sensi con il co­municato dopo Firenze, se ci sono in ballo i soldi, li lascio, dal mio punto di vista questo problema non esiste... Lo scorso anno mi hanno anche detto di andare in conferenza stampa e dire che non c’era niente con Soros e poi fece­ro il comunicato in cui si sostene­va il contrario»: queste, in parti­colare la seconda, sono le dichia­razioni che alla proprietà non so­no piaciute per niente, soprattut­to quell’accenno alla vicenda So­ros sarà impossibile o quasi da far dimenticare, è considerato quasi come un tradimento, consideran­do che sui comunicati dell’epoca la società è convinta di aver detto il contrario. Eppure, volendo ri­manere ai comunicati, in partico­lare quello della dottoressa Sensi subito dopo la quaterna incassata sul campo della Fiorentina, nelle parole del presidente c’era stata, pur auspicando un ritorno allo Spalletti delle prime tre stagioni, un’esplicita conferma del tecnico. Conferma che pure ieri è trapela­ta da Trigoria. Anche se la sensa­zione, in questo momento, è quel­la di una società in attesa di di­missioni e un tecnico, al contra­rio, sempre in attesa, ma di esse­re messo alla porta. Chi farà il primo passo?

INCONTRO - Una risposta dovreb­be, potrebbe darcela l’incontro che, dicono, ci sarà questa setti­mana tra l’allenatore e la dotto­ressa Rosella Sensi. Spalletti lo ha posizionato alla fine della stagione, ma è probabile che ven­ga anticipato, pro­prio alla luce degli ultimi fatti, com­presi quelli di cam­po che ormai dico­no Champions del prossimo anno im­possibile, Europa League aggrappata alla speranza di una Roma in grado di fare la Roma nelle ultime quattro par­tite del campionato. Il tecnico, parole sue, ha detto chia­ramente di essere pronto a lascia­re i soldi che gli garantisce il suo contratto per le prossime due sta­gioni. Gli crediamo, semmai il problema da risolvere sarebbe quello dei contratti dei suoi colla­boratori, i vice Marco Domenichi­ni e Aurelio Andreazzoli, i prepa­ratori Paolo Bertelli e Luca Fran­ceschi, il preparatore dei portieri Adriano Bonaiuti, l’osservatore e non solo Daniele Baldini, stipendi che, sommati l’uno all’altro, fanno oltre un milione di euro lordo a stagione. Tutto, ma proprio tutto, potrebbe essere risolto dall’arrivo di un’offerta per Spalletti, offerta che per il momento non è arriva­ta. Ma potrebbe arrivare. Ieri, in­fatti, a Torino, sponda Juventus, con Claudio Ranieri travolto dagli ultimi risultati negativi, il nome di Spalletti come nuovo tecnico bianconero ha trovato sempre più riscontro. E, certo, se si dovesse materializzare, qualcosa potreb­be cambiare in maniera radicale. Se poi pure il Milan accelerasse sull’uomo di Certaldo, allora...
Fonte Corriere dello Sport

Napoli, Conti è tuo


Quando gli è stata prospettata l’ipotesi-Napoli, Daniele Conti non solo avrebbe sgranato gli occhi ma pare abbia raccolto l’invito anche con interesse e compiacimento. Tutto l’opposto di Floccari. Con­ti, pur legatissimo al Cagliari sul piano affet­tivo, aveva sognato fin da piccolo di giocare in due squadre soltanto: la Roma di papà Bruno, dove è cresciuto calcisticamente, ed il Napoli, appunto. Un giorno arrivò persino a chiedere al patron giallorosso Dino Viola: «Presidente, perchè non mi lascia andare al Napoli? Lì c’è Maradona, il mio mito» . Ed il Senatore gli mollò un paio di pizzicotti pri­ma di baciarlo sulle guance. Di recente, poi, il regista che a Cagliari è diventato una bandiera dopo dieci anni di onorata militanza e circa tre­cento presenze tra A e B (266) non ha nascosto le sue simpatie per la formazione azzurra: «Giocare al San Paolo fa sempre un certo ef­fetto. Ti dà una carica che non ritrovi in al­tri stadi», disse il 23 novembre scorso dopo aver obbligato il Napoli al primo pareggio casalingo della stagione, realizzando il gol del due a due in pieno recupero. Fu proprio lui ad interrompere una serie di successi in­terni che durava da sette mesi tra campiona­to e coppe. Conti ed il Napoli, il Napoli e Conti, un amore che parte da lontano, che prima o poi sarebbe dovuto sbocciare. Un segno del de­stino. Daniele ci ha provato anche con un paio di «dispetti»: la rete della vittoria-sal­vezza del Cagliari nello scorso campionato ed il bis al San Paolo sotto gli occhi dell’ex maestro Reja che festeggiava cento panchi­ne in A. Recentissimo l’ammiccamento, l’esplosio­ne del feeling, dopo averci provato con D’Agostino e finto un vago interessamento per Ledesma. Il Napoli aveva individuato in Daniele Conti l’elemento giusto per prende­re in mano le redini del Napoli e portarlo verso traguardi ambiziosi. Personalità, ca­rattere, mestiere e voglia di lasciare l’im­pronta in una grande piazza dopo aver fatto le fortune del Cagliari.

IL CONTRATTO - Conti, proprio a giugno scor­so, respingendo le sirene del Bayern Mona­co, del Celtic e del Palermo, decise di allun­gare il contratto con il Cagliari fino al 2011. Fu testimone papà Bruno di quel rinnovo di un connubio così felice e voluto da entram­bi. Ma non prima di aver ricevuto rassicura­zioni da Cellino che in caso di una chiamata importante si sarebbe trovata il modo per accontentare Daniele. La chiamata è arrivata. De Lau­rentiis e Marino sono decisi a metterlo a disposizione di Donadoni per il prossimo campionato. Ora resta da ve­rificare le pretese di Cellino, che intanto ieri ha blindato i suoi gioielli: «Smentisco qualsiasi tipo di trattativa che riguardi Daniele Conti o altri elementi della rosa. Nessun tesserato del Cagliari è in ven­dita. L'unico giocatore che lascerà la squa­dra il 30 giugno 2009 sarà Acquafresca».

Ibra, Buffon e Kakà: è addio


Tre storie differenti tra loro, ma che alla fine qualche punto di contatto lo hanno. Perché si parla di tre campioni, delle tre big del campionato e di tre bandiere nelle rispettive squadre. Ma che in tutti i casi a fine stagione potrebbero cambiare aria: Buffon, Ibrahimovic e Kakà. E un futuro tutto da decidere.
Gianluigi Buffon sta vivendo giorni di particolare insofferenza e l'intervista rilasciata a "L'Èquipe" è servita a confermarlo: "Ormai da sei mesi mi criticano, come se non potessi più permettermi di prendere un gol. Sì, ho un problema: non ho più diritto di subire ua rete". E pure la Juventus non considera più il suo portiere incedibile. Il problema semmai adesso è trovare un acquirente. La spaventosa offerta del novembre scorso del Manchester City, pronto ad investire su Buffon addirittura 75 milioni di euro, è ormai solo un lontano ricordo. Ultimamente si è fatto vivo solo il Tottenham, che però non si è spinto oltre i 20 milioni. Pochi, troppo pochi, visto che la società bianconera vuole recuperare dalla cessione del suo giocatore una cifra molto vicina ai 40 milioni. Che in pochi possono permettersi. E quelle poche che ci possono arrivare non hanno problemi in porta. Situazione in evoluzione.
Passiamo ad Ibrahimovic. L'attaccante sta facendo di tutto per rompere con l'Inter ed i suoi tifosi. Tra dichiarazioni di voler cambiare dopo cinque anni di Italia e gesti eloquenti rivolti al pubblico nerazzurro sabato scorso durante la gara con la Lazio, Ibra sta tirando la corda. Moratti non ne vuole sapere di cederlo. Ma di fronte ad un'offerta di almeno 70 milioni potrebbe pure vacillare. Richiesta che al momento potrebbe arrivare solo dalla Spagna, il campionato più gradito allo svedese. In prima battuta è stato il Barcellona a farsi avanti, potendo contare su una parziale contropartita tecnica come Eto'o. Più almeno 40 milioni cash. Ma adesso è il Real Madrid a farsi sotto. Florentino Perez ufficializzerà la sua candidatura alla presidenza del Real il prossimo 14 maggio. E in fase di elezioni presidenziali vengono sempre spesi nomi di giocatori importanti per accaparrarsi voti. Ibrahimovic è uno di questi.
E così arriviamo al terzo giocatore, Kakà. Anche lui rientra nei piani di Florentino Perez per la rifondazione del Real Madrid. Oppure ci può essere il Manchester United, nel caso in cui perdesse Cristiano Ronaldo. Per prendere il brasiliano servono però circa 80 milioni.
Chiudiamo infine con un punto della situazione sull'uomo del momento, Diego Milito. L'attaccante molto probabilmente a fine stagione lascerà il Genoa. L'unica possibilità per trattenerlo è che la squadra di Gasperini arrivi in Champions League. Ma il futuro dell'argentino pare proprio essere all'Inter. Anche se piace pure fuori dall'Italia. Con Preziosi che incasserà tra i 20 ed i 25 milioni.

Juve al capolinea


Fabio Cannavaro ha completato le visite mediche, cominciate domenica a Perugia e terminate stamattina di buon'ora a Torino alla Fornaca, la clinica di fiducia della Juventus. Dopo i test di ieri, oggi gli hanno scandagliato caviglie e ginocchia per capire, attraverso la risonanza magnetica, se oltre all'usura di un atleta che viaggia verso i 36 anni ci fossero problemi di altro genere. Pare che tutto sia andato molto bene e a questo punto il difensore del Real Madrid è ormai a tutti gli effetti un giocatore della Juventus, alla faccia della crescente contestazione che gli ultrà stanno organizzando nei suoi confronti. Stamane non ci sono state contestazioni, e d'altronde la società sta lavorando per placare tifosi sempre più inviperiti. Ma la nuova Juve, in un certo modo, è cominciata oggi.
I dirigenti continuano a starsene zitti, non si sa se per vergogna o per totale mancanza di argomenti. Ogni decisione sul futuro di Ranieri (futuro immediato: quello a lunga scadenza è già stato stabilito) è stata rinviata alla prossima settimana, quando nel corso del previsto cda, che dovrà servire non soltanto per organizzare le scadenze del divorzio dal tecnico, ma soprattutto per chiedere conto a Blanc e Cobolli Gigli di cosa diavolo stia accadendo a una squadra che s'è squagliata dopo che l'ad e il cittì della nazionale hanno condiviso una focaccia a Recco.
Martedì scorso, John Elkann ha salvato il lavoro dei suoi dirigenti, ma in consiglio d'amministrazione (dove la proprietà è rappresentata da Carlo Sant'Albano) si pretenderanno risposte approfondite e analisi specifiche, perché tutti sono sorpresi da come, a due anni di distanza, si stia riproponendo il medesimo copione che portò alla burrascosa separazione da Deschamps. Tra oggi e allora c'è una serie di analogie impressionante, ma anche una differenza sostanziale: il francese (che ha un carattere più impulsivo, rispetto al suo successore) presentò le dimissioni mentre Ranieri non ha intenzione di farlo, nonostante Blanc gli abbia rivolto calorosi inviti in tal senso. Pare che addirittura l'ad si sia arrabbiato molto quando il tecnico gli ha chiaramente fatto sapere di non voler rinunciare al contratto in scadenza nel giugno del 2010. Non è tanto una questione di soldi, anche perché Ranieri guadagna relativamente poco (circa un milione e 300 mila euro) e durante la carriera ha già monetizzato abbastanza, quanto di principio, perché l'allenatore non vuole fare sconti a una società che non lo ha mai veramente spalleggiato, lavorando piuttosto, e con notevole anticipo, per un futuro senza di lui. "Non sono legato a nessun carro, io corro da solo" ha detto Ranieri e in quella frase non si può non leggere un'allusione a quegli ambienti a cui la Juve continua a essere molto sensibile e che, molto genericamente, si possono definire moggiani. Una galassia attorno a cui orbitano Lippi, Conte, Ferrara. Tutti nomi papabili per la panchina della Juventus.
Domani, alla ripresa degli allenamenti, ci sarà il solito summit a Vinovo. Stavolta ci sarà anche qualcosa da chiarire all'interno della squadra, anche se la clamorosa lite nell'intervallo di Juventus-Lecce ha in qualche modo rafforzato l'immagine di Ranieri all'interno del gruppo ed emarginato Camoranesi, che ha punteggiato le ultime stagioni (compresa quella di serie B) con una serie intollerabile di insubordinazioni e scatti di nervi, senza che poi il rendimento in campo giustificasse tale arroganza. "Ci vuole più rispetto per giocatori di un certo spessore dopo otto anni di militanza alla Juventus - ha detto Sergio Fortunato, procuratore del giocatore - Per Camoranesi non ci saranno strascichi, ma lo si deve capire: ha giocato in un ruolo non suo ed aveva diritto ad un appello nel secondo tempo, giocando da esterno, come sa fare".
Intanto, il Milan si è allontanato mentre Fiorentina e Genoa si avvicinano. E i tifosi sono terrorizzati all'idea che domenica prossima non sarà Vives ma Beckham, non Tiribocchi ma Inzaghi, non Giacomazzi ma Kakà ad attentare alla pericolante porta di Buffon.

Ibra ma che vuoi?


Tra una settimana potrebbe essere scudetto: l'Inter di Mourinho e di Ibrahimovic è quasi giunta alla fine della sua corsa. E già questo è il punto fondamentale della questione, posto che ormai non c'è più alcun dubbio sul quarto titolo nerazzurro consecutivo. E' l'Inter di Mourinho o quella Ibrahimovic? Se dovessimo scegliere un leader unico di questa squadra, il suo marchio, il suo timbro identificativo diremmo l'Inter dell'allenatore showman portoghese o quella del fenomeno svedese?

L'acrobata Ibrahimovic - 28 anni ancora da compiere, atleta probabilmente al clou della sua carriera - si è preso tutto il finale dell'ultima recita: gol di classe e potenza insieme, un assist sopraffino e persino una rottura clamorosa con il pubblico che aveva cominciato a fischiarlo per il suo egoismo insistente sotto porta (e ci mancherebbe altro...). E probabilmente anche per le sue paturnie esternate recentemente, in quanto non propriamente convinto a restare ancora troppo a lungo nell'Inter. Dopo tanti anni e tanti scudetti (uno con la Juve revocato più due consecutivi e un altro in arrivo con l'Inter) vorrebbe un approdo più sicuro alla Champions League - unico trofeo che manca ancora al suo già ricco palmares - e magari un contratto ancora più ricco. Proprio quest'ultima pubblica uscita ha deluso e sconcertato Moratti che già paga al suo Zlatan un contratto da favola.

Ma non è nemmeno escluso, a questo punto, che si faccia muovere a compassione e conceda pure un ritocchino alla decina di milioni già concessi al fuoriclasse. Unico giocatore del panorama italiano (a parte Kakà forse...) in questo momento in grado di competere con lo star system del football internazionale: Cristiano Ronaldo e Messi in primis. Secondo Mourinho - giudizio di parte, ovviamente - Ibra è anche meglio di loro.

E' soprattutto dopo la partita contro la Lazio, che il marchio di Ibrahimovic si presenta quasi stampato a fuoco sulla pelle dell'Inter. Marchio probabilmente predominante rispetto a quello di Mourinho. Non per sminuire l'importanza e l'apporto del portoghese a questo quarto scudetto consecutivo che si va velocemente costruendo, ma i gol dello svedese sono stati determinanti. Nella partita di sabato sera a San Siro - prima del micidiale gol di Ibrahimovic: una bordata di destro a oltre 100 all'ora, arrivata dopo una finta che gli ha aperto lo specchio della porta (è qui il vero segreto del fuoriclasse) - l'Inter non c'era proprio.

Difettava in gioco, mostrava una manovra lenta e poco costruttiva, non riusciva a creare molte nonché efficaci occasioni. E anche dal punto di vista fisico, che è sempre stata il suo elemento distintivo, sembrava in netto calo rispetto alle giornate migliori e più travolgenti.

E' stato Ibrahimovic a tirarla fuori dalla palude, col suo 21° gol del campionato: un livello cui mai mai era giunto prima. E' stato Ibrahimovic a consegnarle lo scudetto in mano. Come aveva fatto l'anno prima a Parma, quando era rientrato proprio all'ultima giornata per partire dalla panchina, entrare e segnare i gol decisivi che avrebbero tenuto a distanza di sicurezza la Roma. E' addirittura un Ibrahimovic più forte e deciso dell'anno prima. E' stato lo stesso Mourinho ad ammetterlo: "Lo scorso anno Ibra è stato a lungo infortunato, in questa stagione invece è stato sempre bene".

Ibrahimovic in questa stagione ha giocato da unica punta o quasi, tutti gli altri intorno (da Balotelli, a Cruz, a Crespo per non parlare di Adriano) hanno praticamente fatto da comparsa. Gli hanno fatto da assistente. Ibrahimovic ha trascinato la squadra quando le punte intorno sono venute meno: Adriano si è autoescluso fino a decidere di abbandonare, follemente, una squadra ancora in grado di vincere moltissimo; Cruz non è mai entrato tra gli eletti di Mourinho, il quale lo considera indisciplinato tatticamente; Crespo, un attaccante ancora integro e in grado di dare molto nonostante l'età, è stato soltanto una riserva e per un lungo periodo addirittura riserva della riserva; Balotelli, giovane puledro di razza, dopo una partenza burrascosa è diventato il partner ideale di Ibra, ma deve ancora trovare un equilibrio psicologico che gli dia continuità. Ma tra Ibra e gli altri quest'anno c'è un vero abisso. Dopo i 21 gol dello svedese si precipita ai 6 di Balotelli. Già questo dato giustificherebbe da sola l'affermazione che l'Inter è una squadra Ibra-dipendente.

Ingaggiato nell'estate 2006 sfruttando il precipitare della Juventus in serie B e pagando 26 milioni (si dice che ora ne valga addirittura 100) alla società bianconera che non è mai riuscita a rimpiazzarlo efficacemente, nei suoi tre anni all'Inter Ibra è andato progressivamente aumentando il suo tesoro di gol. Quindici reti al primo campionato, diciassette al secondo e siamo già a ventuno al terzo, con possibilità di finire ancora più in alto (anche se domenica prossima a Verona contro il Chievo sarà fermo per squalifica). Con Mancini alla fine il rapporto si era molto logorato, il vecchio tecnico lo pungeva perché restava troppo fermo a causa dell'infortunio, i due non si amavano. Mourinho lo ha rimesso al centro del suo progetto: anzi a dir la verità, se si togliesse Ibrahimovic dal progetto-Mourinho non si sa bene che Inter sarebbe.

Il suo punto debole (ma anche quello di forza) è il caratteraccio: irascibile e litigioso Ibra si fa spesso saltare i nervi, rimedia ammonizioni inutili. Ma è lo stesso carattere che gli permette anche di pensare l'impossibile, di essere egoista e micidiale quanto serve.
Già con Ibrahimovic in formazione l'attacco dell'Inter, per fare un salto di qualità verso la Champions" ha bisogno di rinforzi. Senza di lui la ricostruzione dovrebbe essere totale e diventerebbe un fortissimo punto interrogativo. Ibra sogna la Champions e il Pallone d'Oro: farselo scappare prioprio ora che è al top della sua carriera, significherebbe ricominciare da capo.

Paradossalmente l'Inter potrebbe arrivare allo scudetto proprio nel match col Chievo, quando Ibra non ci sarà per squalifica. Sarebbe proprio un bello scherzo e tutto sommato ci vorrebbe un crollo del Milan, al momento non ipotizzabile. La festa potrebbe essere per il match in casa col Siena (anche lo scorso anno l'Inter doveva festeggiare col Siena, poi rimandò tutto all'ultima giornata...): un'occasione d'oro per riconciliarsi col pubblico dopo i fischi, i veleni, i gesti e i gestacci della partita di sabato sera. O anche l'occasione per darsi un clamoroso addio.
Fonte La Repubblica