Manchester, razza padrona

Pubblicato da Massimiliano Mogavero On 11:15


La razza padrona del calcio moderno ha il volto shakespeariano di Sir Alex Ferguson, l'uomo dalle gote arrossate degne di Falstaff, in lotta perenne con la pensione e con una moglie incombente che già tre anni fa tentò invano di scollarlo dall'adorata panchina. La razza padrona ha le fattezze creole di un giovane portoghese di Madeira, che vola sopra le disgrazie degli avversari pur essendo stato lui ad averle provocate. Ha la fisionomia di un ex moccioso della periferia di Liverpool, con le orecchie a sventola e due occhi azzurri piccoli e infossati che lo fanno sembrare una specie di husky, uno che fra pochi mesi diventerà padre dopo aver saputo crescere come uomo e come calciatore sino a diventare campione su entrambi i fronti: centravanti o terzino per lui non fa più così tanta differenza.

Il Manchester che parte per Roma non è una squadra nata ieri. E' la somma di tante primavere, di ragazzini cresciuti sino a diventare un modello per chi li seguiva. La catena inizia con Pallister, Bruce, Sharpe, Cantona, Kanchelsky, Hughes, Schmeichel, Neville, si abbelisce con Beckham, Giggs e Butt, balla con i Calypso Boys (Cole e Yorke), si fa concreta e cinica con Sheringham e Solskjaer e lentamente comincia a vincere tutto, con l'aiuto di O'Shea, Wes Brown, Park, nomi di seconda, terza fascia, sino a prendersi due finali di Champions consecutive, la seconda dopo aver già vinto la prima. Anche le terze fasce sono fondamentali.

Se Ferguson è l'uomo che non sa smettere, se è lui l'instabile capitano che non ha ancora trovato un motivo accettabile per abbandonare la nave, i suoi figli, allevati alla stessa cultura, gli restituiscono quanto appreso sui banchi di scuola di Carrington (il campo d'allenamento) e dell'Old Trafford. La gomma americana che Ferguson si infila in bocca all'inizio di ogni partita è il punto di raccordo, il senso più profondo e allungato di questa emozione fanciullesca e infinita. La password. Ha ragione Desailly. Dalle colonne del "Newsweek" l'ex-Milan e ex-Chelsea scrive: "E' un falso storico pensare che i giocatori moderni pensano soltanto ai soldi. Saranno una decina in tutto. Gli altri vivono per giocare". Vero. Ogni volta che il Manchester segna un gol il suo tecnico salta per aria uscendo dal cappotto, muovendo scompostamente, quasi senza ritmo, le braccia verso l'alto, agitanto i pugni come se fosse sempre la prima volta, come se ogni volta fosse una sorpresa: proprio come un bambino. Quest'uomo, questo fanciullino di quasi 70 anni, comanda il calcio dal 1992. In 17 anni ha vinto come cinque allenatori di grido messi insieme.

Un capolavoro di esperimenti e valorizzazioni, acquisti strabilianti (Berbatov) o minimi (Park) e cessioni roboanti o inevitabili, con qualche errore, per esempio Veron, e qualche atroce sacrificio, per esempio Van Nistelrooy. Col suo scozzese smozzicato ha trasformato Tevez in un filosofo e Macheda in una specie di golden boy, ha conquistato la sua terza finale di Champions, la seconda consecutiva. Ferguson non è un allenatore, né un manager nel senso più classico del termine. E' piuttosto un inventore. Ha creato dal nulla una generazione di calciatori: la razza padrona, appunto. Che è per sua natura senza età, senza un colore della pelle prevalente, non ci sono né alti né bassi, né giovani né vecchi. Il filo rosso, rosso diavolo, che unisce e compatta un gruppo come questo, e che quindi rende possibile esperienze come quella del Manchester United, è la condivisione di un sentire.

Trenta uomini accomunati da un senso del dovere che si fonde con la creatività individuale, nel nome del lavoro e della qualità. Una percezione collettiva del calcio. Berbatov che si mette al servizio di Welbeck. Neville che spinge perché al suo posto giochi Rafael. Scholes che sostiene Anderson e Giggs che va a prendere Macheda all'aeroporto. Questo si chiama squadra. Una squadra che possiamo allargare ai frequentatori dello stadio, 76 mila posti, sempre pieno, e ai padroni del club, la famiglia Glazer, con a capo il quasi ottantenne Malcolm Glazer, milionario americano che lotta, si indebita, sbaglia. E che all'inizio venne quasi rigettato dalla città.

Anche così si fa quadrato: non caricando di responsabilità un gruppo benché il deficit societario (797 mln di euro) oltrepassi ormai le entrate (550 mln), pur essendo queste le più alte mai raggiunte da un club. Tutto questo sbandare dei conti non impedisce tuttavia di sognare un ampliamento dello stadio (è già qualcosa di più concreto di un sogno): da 77 mila a 95 posti. Nella crisi le grandi imprese investono. O se non altro non restano ferme.

Con queste fantastiche premesse sportive, ma senza dimenticare i suoi fardelli debitori, il Manchester può riconfermarsi campione d'Europa, cosa mai accaduta da 15 anni a questa parte, ossia da quando l'Uefa ha cancellato la Coppa dei Campioni in favore della più democratica Champions League, che è anche la coppa delle seconde, delle terze e in certi casi delle quarte.
Il Manchester va a Roma perché forte, scaltro, geniale, compatto, vitale, pieno di piedi, polmoni, coraggio, entusiasmo. Fra poche ore conoscerà il nome dell'avversaria. Fosse il Chelsea, sarebbe la prima volta che una finale si ripete a distanza di un anno, con l'unica variante della città che la ospita (Mosca, Roma). Fosse il Barça, sarebbe certamente la finale più giusta per i valori espressi nell'arco della stagione. Il Manchester può dunque rivincere la Coppa. L'ultimo a trionfare per due volte consecutive (era ancora il tempo dei tabelloni ristretti) fu il Milan di Sacchi ('89/'90). Ci riuscirono anche il Nottingham Forest, ora tristemente declassato a squadretta, il Liverpool di Keegan, l'Inter di Angelo Moratti e il Benfica di Eusebio. Il Bayern e l'Ajax fecero addirittura tripletta. Il Real dominò le prime cinque edizioni. Altri tempi, altri soldi. Ma non necessariamente un calcio migliore.
Fonte La Repubblica