Conferenza stampa: José Mourinho entra a piedi pari contro tutti e non ha esitazioni, a proposito del dubbio rigore su Balotelli, a dire: "A me non piace la prostituzione intellettuale". Fermi tutti, stop e ripartenza. Ormai è chiaro che non abbiamo davanti soltanto un allenatore. Ma allora chi è, e che cos'è, il Mourinho che parla, lascia tutti a bocca aperta e se ne va?
Alla guida del Porto o del Chelsea era l'ideologo di un calcio cerebrale, giocato con formule metafisiche. Arrivato all'Inter, ha capito subito di essere caduto nel cuore più nevrotico, sentimentale e fragile del calcio mondiale. Società, squadra e "popolo" nerazzurro, un rosario di vittorie intervallato da cicli di disgrazie.
E quindi, dato che "non sono un pirla", Mourinho ha deciso che la sua partita più seria non si giocava in campo, bensì nelle interviste del dopopartita.
È il calcio parlato, analizzato ogni weekend da infinite moviole e sobillato da innumerevoli polemiche: ed è il calcio più "politico" che esista. In questa politica giocata con altri mezzi, Mourinho ha scelto di essere un leader totale. Si fa presto, infatti, a dire che è un grande comunicatore. Ma bisognerebbe stabilire intanto che cosa comunica. Perché Mourinho è un guru, un santone, un filosofo. In quanto tale, è un manipolatore di concetti. Sembra in effetti la reincarnazione postcalcistica di Helenio Herrera, non a caso detto il Mago. Solo che "Acca Acca" arrivava al massimo al "taca la bala", e ai cartelli motivazionali nello spogliatoio, "stile più forza uguale classe"; Mourinho guarda i giornalisti e si appella all'"onestà intellettuale", e spara a zero sugli avversari.
Nessun allenatore ha mai parlato così. E si capisce: in quanto leader filosofico, il tradizionalista Mourinho è in grado di agitare concetti e retoriche strappando le convenzioni. Anzi, crea una realtà parallela. Prende gli episodi più controversi del torneo e li manipola in una ricostruzione sua, una storia d'autore, sempre esibendo la faccia imbronciata di chi dice verità sgradite ed è pronto a screditare chi non le accetta. I "colleghi" Spalletti, Ancelotti, Ranieri, che si lamentano delle ingiustizie arbitrali, vengono tutti condannati al girone infernale dei bugiardi.
Nella sua fusion culturale, fra memorie salazariste e slanci guevaristi, fra la tradizione spirituale e il guerrilla marketing, Mourinho ha una visione realistica della politica e dunque anche del calcio. Qui nessuno è innocente. Solo che mentre gli altri si limitano a pensarlo, lui lo dice. E così parlando è riuscito in un'impresa di autentico splendore strategico: cioè a trasformare la società più forte e più ricca del campionato in una fortezza minacciata da nemici insidiosi, da truppe vendicative, da gang di assalitori che agitano la bandiera della giustizia senza averne il titolo.
Sugli spalti di questo fortilizio minacciato, Mourinho maneggia una dialettica da sofista, tramutando provocatoriamente il vittimismo in un'arma offensiva, e il calcio in una disfida teologica, o teosofica, con il campo di gara definito da categorie supreme: la verità, la giustizia, la salvezza, e là in fondo la Vittoria, elusivo miraggio, eterna delusione, un fado mistico ai confini di un mondo senza fede.
Un filosofo laureato inorridirebbe all'idea che qualcuno potesse vedere nel latino Mourinho l'inverarsi dello schema schmittiano "amico/nemico". Eppure, nel mondo del calcio, che copre il cinismo con le convenzioni, e la ferocia opportunistica con l'ipocrisia, Mourinho fa l'umanamente possibile per incarnare un principio di ostilità assoluta. Non vuole amici, niente smancerie. "Non sono amico suo, sinceramente", ribatte al giornalista Mario Sconcerti, che ha osato proporgli un paragone con i risultati del suo predecessore Roberto Mancini. Altre volte disdegna con improntitudine l'approccio degli intervistatori, e ogni volta impone regole tutte sue, perché la prima norma di Carl Schmitt recita: "Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione". E all'improvviso sembra addirittura esser preso da una speciale malinconia, ispirata dal fardello del potere. È il capo che avverte su di sé responsabilità immense: ma presto rialza lo sguardo, e a ciglio asciutto "vede" orizzonti e traguardi e campi di battaglia inesplorati.
Deve piacergli l'ordine, anche politicamente. Ma allora è spettacolare il modo in cui una mentalità arcaica si è proiettata nei cieli della tarda modernità. A farsi prendere la mano verrebbero in mente Clausewitz, Lenin, Mao, le avanguardie, i futurismi, i decisionismi. È come se una destra conservatrice, attraverso di lui, fosse riuscita a gestire le categorie rivoluzionarie della sinistra più accesa, il nero che si tramuta nel rosso, la razionalità che si fonde nel romanticismo, l'autorità nell'eversione. Ed è in fondo una consolazione potersi rifugiare in corner, cioè nel pensiero rassicurante che per Mourinho, quando si parla di destra e sinistra si intendono, ancora e soltanto, le fasce laterali.
Fonte Edmondo Berselli
Nella sua fusion culturale, fra memorie salazariste e slanci guevaristi, fra la tradizione spirituale e il guerrilla marketing, Mourinho ha una visione realistica della politica e dunque anche del calcio. Qui nessuno è innocente. Solo che mentre gli altri si limitano a pensarlo, lui lo dice. E così parlando è riuscito in un'impresa di autentico splendore strategico: cioè a trasformare la società più forte e più ricca del campionato in una fortezza minacciata da nemici insidiosi, da truppe vendicative, da gang di assalitori che agitano la bandiera della giustizia senza averne il titolo.
Sugli spalti di questo fortilizio minacciato, Mourinho maneggia una dialettica da sofista, tramutando provocatoriamente il vittimismo in un'arma offensiva, e il calcio in una disfida teologica, o teosofica, con il campo di gara definito da categorie supreme: la verità, la giustizia, la salvezza, e là in fondo la Vittoria, elusivo miraggio, eterna delusione, un fado mistico ai confini di un mondo senza fede.
Un filosofo laureato inorridirebbe all'idea che qualcuno potesse vedere nel latino Mourinho l'inverarsi dello schema schmittiano "amico/nemico". Eppure, nel mondo del calcio, che copre il cinismo con le convenzioni, e la ferocia opportunistica con l'ipocrisia, Mourinho fa l'umanamente possibile per incarnare un principio di ostilità assoluta. Non vuole amici, niente smancerie. "Non sono amico suo, sinceramente", ribatte al giornalista Mario Sconcerti, che ha osato proporgli un paragone con i risultati del suo predecessore Roberto Mancini. Altre volte disdegna con improntitudine l'approccio degli intervistatori, e ogni volta impone regole tutte sue, perché la prima norma di Carl Schmitt recita: "Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione". E all'improvviso sembra addirittura esser preso da una speciale malinconia, ispirata dal fardello del potere. È il capo che avverte su di sé responsabilità immense: ma presto rialza lo sguardo, e a ciglio asciutto "vede" orizzonti e traguardi e campi di battaglia inesplorati.
Deve piacergli l'ordine, anche politicamente. Ma allora è spettacolare il modo in cui una mentalità arcaica si è proiettata nei cieli della tarda modernità. A farsi prendere la mano verrebbero in mente Clausewitz, Lenin, Mao, le avanguardie, i futurismi, i decisionismi. È come se una destra conservatrice, attraverso di lui, fosse riuscita a gestire le categorie rivoluzionarie della sinistra più accesa, il nero che si tramuta nel rosso, la razionalità che si fonde nel romanticismo, l'autorità nell'eversione. Ed è in fondo una consolazione potersi rifugiare in corner, cioè nel pensiero rassicurante che per Mourinho, quando si parla di destra e sinistra si intendono, ancora e soltanto, le fasce laterali.
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